Come sempre più spesso capita con gli artisti italiani, incontriamo Vacca nella sala riunioni di una prestigiosa major, anziché nel bar sotto casa. E nella migliore tradizione di questi incontri, facciamo il punto della situazione partendo da dove ci eravamo lasciati: il tour con Fabri Fibra, il nuovo disco fresco d’uscita per la Capitol, i progetti e le speranze per il futuro.
Blumi: Tra tutti i rapper italiani sei sicuramente quello che ha attraversato più fasi discordanti, non soltanto a livello musicale ma anche a livello umano. In questa nuova fase, quella delle major e della grande distribuzione, come ti senti?
Vacca: Abbastanza a mio agio, devo dire. La differenza più grande, ovviamente, sta nell’organizzazione: sotto questo aspetto anche prima di firmare con la Capitol ero abituato molto bene, Area di Contagio è una delle realtà più efficienti del settore, però non avevo mai provato l’ebbrezza di avere una decina di persone che mi seguono in ogni dettaglio! (ride) Dal punto di vista artistico, insomma, non è cambiato poi molto: sono i mezzi che ho a disposizione per promuovere la mia musica ad essere completamente diversi.
B.: Come mai hai intitolato il disco Faccio quello che voglio?
V.: Perché ho fatto quello che volevo, molto semplicemente. Ho avuto una totale libertà di scelta su ogni aspetto del disco, perfino su postproduzione e grafica: nessuno ha messo becco in quel che facevo o mi ha proposto di cambiare una virgola. Immaginando che qualcuno avrebbe potuto mettere in dubbio la verità di queste mie affermazioni, ho deciso di segnalare la cosa anche nel titolo.
B.: A proposito di scelte, quella che hai fatto per l’intro è perlomeno insolita: non si tratta di un’introduzione all’album, ma di una vera e propria invettiva porno. Come mai?
V.: È vero, normalmente l’intro è una presentazione del disco, ma come spiego anche nella traccia Mille problemi, io non sono mai stato il tipico rapper quadrato e prevedibile: ogni tanto ho l’esigenza di rompere gli schemi, anche nelle piccole cose. Per fare un esempio banale, per quest’album molti si aspettavano una sorta di seguito di Vh, con sonorità reggae a profusione e rap molto musicale. Non volendo essere banale ho deciso di cambiare completamente strada, scegliendo un sound del tutto diverso e lavorando moltissimo sulle metriche, una cosa di cui vado particolarmente fiero. Quando ho avuto in mano il master dell’album e l’ho finalmente riascoltato dall’inizio alla fine, ho capito di aver fatto la cosa giusta: suona esattamente come lo volevo e, soprattutto, chiuderà la bocca a chi per anni mi ha dato del paraculo per la musicalità di alcuni brani: in Faccio quello che voglio pezzi come Lady Sexy non ce n’è, sono curioso di sapere a cosa si attaccheranno adesso.
B.: Questa svolta riguarda anche le tematiche?
V.: No, sulle argomentazioni resto totalmente coerente con la mia linea di pensiero: canto delle mie passioni, tra cui ovviamente anche il sesso e la ganja! (ride) Faccio quello che voglio anche in questo: parlo della mia quotidianità, e magari parlo anche della strada e di come la vivo, come in Mi barrio, ma sempre con un certo spirito e una certa cautela. Suonerà scontato, ma a differenza di altri rapper non ho intenzione di scrivere di cose che potrebbero ritorcermisi contro. Preferisco raccontare di situazioni più leggere, come le mie serate o i miei viaggi mentali.
B.: La tua scelta di affrontare argomenti leggeri ha spesso fatto discutere la scena. Credi che queste polemiche abbiano fondamento?
V.: Capisco che alcune persone preferiscano ascoltare musica più impegnata, anche in considerazione della funzione di denuncia che aveva l’hip hop delle origini, ma vorrei sottolineare che nell’hip hop coesistono da sempre vari filoni: quello che rappresento io non ha meno dignità degli altri. E comunque, è una questione di coerenza: io sono fatto così, con la musica comunico ciò che mi sento di esternare. Se cercassi di fare altro andrei contro me stesso, sarebbe una forzatura. Rispetto il pensiero di tutti, ma ogni tanto bisognerebbe andare oltre certe questioni e giudicare un disco per il suo valore d’insieme. Le sonorità di questo disco sono chiaramente south, ma credo di essere uno dei pochi ad averle utilizzate senza per questo copiare in toto gli americani, cambiando e arricchendo la ricetta originale. Spero che la gente si focalizzi su questo, più che sulle mie decisioni in materia di argomenti.
B.: Sembra che tu sia davvero entusiasta delle sonorità dell’album…
V.: Lo sono, assolutamente. I beat sono tutti di Mastermind, fatta eccezione per quello di Voodoo connection, che è di Teone. Per quanto riguarda invece Oggi va così, il featuring con Alessio Beltrami, e Non ci sono più, l’arrangiamento in postproduzione è di Marco Zangirolami. Ho fortemente voluto sonorità south e west, ma non per motivi ideologici: semplicemente dopo il tour con Fabri Fibra, che mi ha in qualche modo esposto a un certo tipo di musica per mesi, mi sono reso conto di avere voglia di un sound più hardcore rispetto a quello del mio precedente disco. All’epoca ero reduce dalla mia esperienza con la Best Sound, con cui avevo già registrato una decina di pezzi: ho buttato via praticamente tutto e ho ricominciato da capo con questa idea fissa in testa. Io e Mastermind ci chiudevamo nel suo studio per ore ed ore al giorno, procedendo di pari passo con beat e liriche per adeguarci meglio alle rispettive esigenze: registravamo un paio di pezzi al giorno e quasi sempre con la filosofia del “buona la prima”.
B.: E il reggae che fine ha fatto?
V.: Il reggae è entrato nella mia vita assieme ai Casabrasa, un soundsystem con cui ho suonato moltissimo mentre lavoravo a Vh: se quel periodo è stato segnato da quel tipo di musica, questo ultimo album è nato mentre ascoltavo tutt’altro, perciò era giusto che rispecchiasse un altro genere e un’altra attitudine. Detto questo, non voglio abbandonare il reggae: lo porterò sicuramente avanti, magari tramite un mixtape o uno street album.
B.: Tornando un attimo alla questione delle tematiche, nella già citata Mi barrio parli della tua zona, Quarto Oggiaro, che a Milano è considerato il quartiere problematico per eccellenza. Come mai, pur essendo uno dei pochissimi rapper italiani che può effettivamente “vantare” di vivere certe situazioni, non ne parli praticamente mai?
V.: Preferisco non parlarne o, se proprio devo, parlarne in linea generale, senza entrare nello specifico. Ripeto, non mi va l’idea di sputtanare tutto quello che ho costruito con la musica per vantarmi di cose che magari ho fatto in passato. Come tutti quelli che sono cresciuti in determinati contesti, ho alle spalle un bagaglio di esperienze di un certo tipo. Ma, come tutti quelli che certe cose le hanno fatte davvero, evito di parlarne in prima persona: se lo facessi, i danni sarebbero più dei benefici. Quarto Oggiaro sarà sempre casa mia, è parte di me e non me ne vergogno di certo: da lì a vantarmi dei miei trascorsi in un pezzo, però, ce ne passa.
B.: Una delle caratteristiche più particolari dell’album è la presenza di molti cantati tuoi, che culmina con Oggi va così, un brano totalmente cantato che vede la partecipazione di Alessio Beltrami. Come mai questa scelta?
V.: Già dai tempi di Vh avevo provato ad accennare qualche cantato e fin da piccolo l’idea di cantare mi intrigava. Per questo disco ho deciso di lanciarmi definitivamente, sperimentando il mio cantato senza nessuna pretesa, come espediente per arricchire i ritornelli. Inoltre, nel contesto di un disco molto veloce sentivo l’esigenza di un pezzo come Oggi va così: Alessio l’avevo conosciuto tempo fa e l’idea di collaborare con lui mi piaceva molto, ma non volevo assolutamente fare la classica canzone d’amore da rapper, con il ritornello cantato e le solite strofe trite. Per evitare il cliché, ho scelto un argomento totalmente diverso e ho deciso di sostituire anche il rap con una mia parte canticchiata.
B.: Come accennavi prima, hai trascorso dei mesi in tour con Fabri Fibra. Com’è stato vivere dall’interno il fenomeno mediatico più discusso del momento?
V.: Fabri l’ho conosciuto per vie traverse un paio di anni fa, ma non ci eravamo mai frequentati granché, finché un giorno non mi ha chiesto una mano per girare il video di Su le mani! a Quarto Oggiaro, il mio quartiere. Il video è stato un successo e da lì è nata una bella amicizia, che è poi sfociata nella mia presenza fissa sul palco come supporter. Il tour di Tradimento è stato sicuramente l’evento più delirante e grandioso che l’hip hop italiano abbia mai visto: tutte le date erano praticamente esaurite, il pubblico era calorosissimo e lo staff che ci seguiva sembrava arrivare direttamente dal paradiso. Se ci andava via la voce, ci preparavano al volo una tisana allo zenzero fatta a mano; se stavamo male, correvano in farmacia alle tre di notte; se una delle nostre magliette si macchiava, si facevano in quattro per sostituirla… In platea, poi, trovavi gente proveniente dagli ambienti più disparati, dal punk al poliziotto: Fabri ha la capacità incredibile di tirare in mezzo chiunque. Alcuni dei suoi fan parevano seriamente indemoniati, certe scene non le dimenticherò mai. In tutto ciò, capisco perché dall’esterno molti lo criticano, ma posso assicurare che non ho mai conosciuto nessun rapper attaccato alla scena italiana come Fabri. Sul palco, in ogni singolo concerto, ringraziava la scena italiana e invitava tutti a supportarla.
B.: In tour con voi c’era anche Nesli, con il quale il sodalizio si è spinto ancora più in là di una semplice amicizia…
V.: Io e Nesli abbiamo dato vita al progetto Fobici, che riunirà le nostre capacità individuali in un unico disco. Stiamo già registrando diversi pezzi e entrambi siamo molto esaltati da quello che ne sta uscendo. Per motivi contrattuali, non essendo sotto contratto con la stessa casa discografica, non so in che forma potremo pubblicarlo: probabilmente si tratterà di uno street album, o addirittura di un lavoro in free download. L’intenzione, comunque, è di fare crescere questa realtà e magari trasformarla in un tour a tre, in futuro: io, Fabri e Nesli, una specie di Up in Smoke Tour italiano…