Incontro Marracash al Berlin Café di via Gian Giacomo Mora: mancano pochi giorni al Natale e siamo nell’ora in cui Milano si prepara al rito dell’aperitivo. Parliamo di come si vive e racconta questa città “dal centro ai blocchi”, della “ricchezza ostentata di pochi”, discutiamo di vecchie polemiche e ovviamente di musica, ma anche di cinema e istruzione. Quanto state per leggere è quel che ne è venuto fuori.
Slint: Tanto per partire appunto dalle polemiche: a quanto pare la grande presenza della cocaina nell’album ha infastidito una piccola fetta di ascoltatori che l’ha giudicata eccessiva e ingiustificata, tu che idea ti sei fatto?
Marracash: Sarò sincero, tutte queste polemiche mi hanno sorpreso, tanto che mi sono chiesto se siano faziose; cioè derivate da antipatia antecedente all’uscita di questo lavoro oppure se davvero la gente sia sinceramente e personalmente disturbata dai contenuti del disco. Onestamente noi non ci siamo mai posti il problema di parlare o meno della cocaina, ne parliamo con la naturalezza di chi sa che la cocaina oggi è ovunque. Di fatto è la droga dei nostri tempi, come l’LSD lo era in modo diverso per gli anni 60 e 70, quindi accusare me o i Club Dogo di fare una buona pubblicità alla cocaina è come accusare Hendrix di aver promosso la diffusione dell’LSD, semplicemente non ha senso e non è certo quello il nostro approccio.
S.: E qual è quindi il tuo/vostro approccio?
M.: Io la vedo così: la cocaina al momento è la sostanza che meglio si sposa ai ritmi produttivi contemporanei, alle false ideologie della “vita veloce” e alle pressioni della società moderna. Aggiungici poi che é una droga quasi invisibile con la fama di “droga pulita ed elitaria”, consumabile tranquillamente in un locale pubblico senza dare troppo nell’occhio, il che l’ha resa una droga socialmente accettabile e accettata che ha alimentato un consumo trasversale a tanti ambiti sociali anche molto distanti tra loro e capisci perché sia quasi impossibile non incontrarla e, di conseguenza, non parlarne specie per un artista a cui, come al sottoscritto, preme di essere figlio dello spirito dei propri tempi e di cogliere l’essenza di questo spirito da tanti punti di vista. Detto questo mi pare, ripeto, che l’atteggiamento che abbiamo nei confronti della sostanza sia prevalentemente critico, il mio, poi, lo è di certo dato che in prima persona ho visto un sacco di gente rovinarsi a causa dell’eccessivo consumo; dopodiché se qualcuno non riesce a cogliere queste sfumature e ci vede solo un parlarne puro e semplice, o peggio un esaltazione incosciente, sono problemi suoi. Io posso farci poco e nemmeno sento di avere una qualche vocazione educativa per far cambiare la testa alla gente su temi come questo.
S.: La cocaina compare soprattutto in Le Voglio Piene in cui viene messa in scena in modo molto teatrale, che mi dici di questo pezzo?
M.: E’ appunto una parodia appositamente teatrale come dico sarcasticamente nell’intro del pezzo. Ormai la cocaina nelle piazze ha quasi preso il posto del fumo, è diventata una droga di massa che alimenta enormi bussiness dalle periferie al centro, con la differenza che nelle periferie la gente spesso pippa peggio. Quindi sotto molti aspetti la “vera” cocaina resta una droga elitaria, il fatto è che aumentando la domanda anche in contesti dove la gente in teoria non se la potrebbe permettere la sostanza si è andata via, via adulterando e si è creato un mercato animato da spacciatori e ,soprattutto, consumatori che vivono in situazioni spesso disperate. Le Voglio Piene vuole rendere conto appunto di questa situazione anche se ,ovviamente, nel modo parodistico e teatrale che sentite sul disco.
S.: Qualche tempo fa parlando dei Co’Sang mi avevi detto che la loro uscita con Chi More Pe’ Mme ti aveva spinto a qualche considerazione critica verso il tuo operato, nella fattispecie se non sbaglio si parlava di Popolare. Adesso senza voler fare un paragone tra te e loro, come giudichi l’aderenza di quello che canti rispetto a quello che vedi e vivi?
M.: Guarda, visto che hai citato i Co’ Sang secondo me va subito detto che Napoli e Milano sono due realtà molto diverse sotto ogni singolo aspetto. Milano nasce e si sviluppa come polo degli affari, della moda, dell’apparire ecc.. non ha mai conosciuto la fame vera che esiste a Napoli. Persino i nostri criminali, banditi come Epaminonda o Turatello, vivevano di quel culto dell’ostentazione che permea questa città, esattamente il contrario di ciò che succede a Napoli dove, come mi raccontava ‘Nto’ (dei Co’Sang) se ostenti quello che hai te lo “fanno” subito. Qui invece se non ti metti in mostra la gente non ti vede nemmeno, dal pusher di strada al banchiere tutti hanno l’esigenza di mettere in piazza “il loro”. Milano vive il complesso del vincente, il modello alla Briatore, il superpappone insomma, se tu a Milano non ostenti quello che hai, o peggio se non hai un cazzo sei giudicato al punto di non sentirti assolutamente nessuno. E tutto questo ti mette pressione, io conosco gente abituata ad avversità veramente pesanti che si fa prendere dalle crisi di panico per via di tutto lo stress psicologico che ti impongono le situazioni che vivi in questa città. Insomma se a Napoli dove esiste il bisogno vero, quello che spinge la gente a commettere grossi crimini puoi permetterti di vivere per strada e avere qualcuno che ti sostiene. “Meglio niente insieme che essere ricco solo”, come dicono appunto i Co’Sang, invece qui a Milano se non hai niente, non sei niente e spesso non hai più nessuno al tuo fianco. Precisato questo io ci tengo profondamente alla veridicità di quello che scrivo, anche perché sento delle responsabilità verso me stesso e verso la gente che mi conosce. Avendo un rapporto diretto con certe realtà non posso permettermi di infangarle sparando cazzate. Quindi quando faccio un pezzo come Popolare che è dichiaratamente sborone e arrogante lo faccio anche per mettere in scena l’arroganza che ostenta questa città. Io non credo che la cultura istituzionalizzata possieda un predominio rispetto all’istintività e all’ ”ignoranza” che trovi in strada ed è per questo che un pezzo così piace e viene spinto nelle piazze mentre su internet trovi quelli che si fanno le paranoie sulla credibilità etc..
S.: Proprio a proposito della cultura cosìdetta “alta”, mi sembra che ci siano alcuni momenti dell’album (il ritornello di Popolare, alcune barre di Chiedi alla polvere e della Mia prigione) in cui esprimi alcuni giudizi interessanti verso la cultura. Che me ne dici?
M.: Guarda, onestamente a volte penso che la cultura sia soltanto dare un nome a qualcosa che già hai dentro, una specie di reminescenza: per farti un esempio quando ho letto Baudelaire mi sono ritrovato subito nello spleen. C’è chi legge Baudelaire e non si interroga sul reale contenuto di quello che ha davanti ma lo cataloga come un “ok ora so anche questo” senza essere in grado di rapportare ciò che studia a ciò che vive. Io amo la cultura, la lettura e ci spendo parecchio del mio tempo libero ma con la faccia ufficiale della cultura, quella calata dall’alto ho un rapporto di odio-amore, più odio che amore a dire il vero.
S.: Quindi non condividi quel luogo comune secondo cui lo studio è una via di salvezza dall’indigenza?
M.: Parlando per esperienza credo che, aldilà delle belle parole di politici e compagnia che hanno i loro interessi a dire ciò che dicono, la gente che vive il disagio non veda nella cultura una via di fuga; anzi la prima cosa che consigliano i genitori ai figli è quella di trovarsi un buon lavoro sicuro, cosa peraltro oggi quasi impossibile. Poi ci sta che ,di suo, uno magari ingenuamente pensi che la scuola, l’università ecc.. siano davvero dei fattori di mobilità sociale per chi parte dal basso e vorrebbe arrivare in alto ma appena ti ci trovi dentro capisci subito che non è così. Ad esempio scopri che l’università italiana oggi come oggi agevola solo chi se la può permettere e non parlo solo dei soldi per le rette o cose simili. Per dirti: trovo assurdo che lo studente universitario-tipo, ovverosia quello che frequenta tutti i corsi, seminari ecc.., quello che sta culo e camicia con tutti i professori, quello che è sempre in università a fare il vitellone debba portare, per un esame, dei libri in meno di uno che non può frequentare perché deve lavorare per mantenersi gli studi. E’ un controsenso.
S.: Passando un attimo a questioni un po’ più tecniche, una delle cose che più colpisce del tuo stile è la padronanza della metrica, a tal proposito mi viene da chiederti se è una cosa su cui lavori molto o se ti è venuta spontaneamente?
M.: Credo sia stata una evoluzione piuttosto naturale del mio stile. Sono molti anni che scrivo anche se le prime cose che si sono sentite in giro risalgono a meno di due anni fa. In questi anni mi sono preparato per essere il più maturo possibile alla prima prova senza nemmeno sapere se la roba che facevo poteva piacere. A quanto pare sì e ovviamente ne sono soddisfatto. Prendo comunque lo stesso Roccia come una ulteriore palestra per futuri progressi, sia sul piano del flow che di quello della scrittura.
S.: A proposito di soddisfazioni, quali sono i pezzi in cui ti riconosci maggiormente?
M.: Chiedi alla polvere. Senza alcun dubbio. E’ un pezzo che ho scritto molto tempo fa, in cui ho sfogato molti pensieri. Riflette senz’altro gli aspetti più personali e maturi che ho voluto mettere nel disco. Tra le altre cose vorrei dire che il titolo è una citazione di John Fante. Comunque anche ne La Mia Prigione ci ho messo parecchio di mio.
S.: Proprio ne La Mia Prigione a un certo punto dici una frase molto emblematica come “la libertà è una decisione”, cosa intendi?
M.: Sono contento che tu abbia sottolineato proprio quella frase, in effetti penso che sia quella che riassume di più il contenuto del pezzo. Comunque cosa intendo? Intendo dire che spesso la quotidianità ti imprigiona e ti toglie da sotto gli occhi quella che è una considerazione essenziale, persino banale da fare: ovverosia che l’unico artefice di te stesso sei tu. Che in qualunque momento, se hai abbastanza coraggio per farlo, puoi sganciarti dalle tue responsabilità, dall’immagine che gli altri hanno (o tu hai dato) di te per essere veramente te stesso. Conosco criminali che si atteggiano da duri perché questo devono fare per mantenere uno status che non corrisponde a quello che intimamente sono veramente. La gente cerca certezze, e con le certezze trova omologazione e con la omologazione una specie di “morte in vita”. Essere se stessi è la più grande utopia e benché ritenga, come dico in un altro pezzo, che “il compromesso sia omnipresente” e spesso necessario per vivere socialmente, sono comunque convinto che finché ti mantieni abbastanza lucido da capire che per sganciarti da un mondo che spesso non vuoi la unica e semplice decisione spetta a te; allora sei già messo un po’ meglio di tanti altri che la semplicità di quel passo l’hanno ormai persa di vista.
S.: Zoomando nuovamente sugli aspetti musicali del disco, a parte la grande varietà e qualità delle sonorità che si incontrano mi pare che molte strumentali siano di matrice dichiaratamente elettronica, molto sostenute, un sound per certi versi familiare a quello che tira adesso oltreoceano, sei d’accordo? Di chi è stata questa scelta?
M.: Allora la scelta è stata in molti casi mia, dato che oltre a essere un semplice host sono anche il produttore esecutivo del disco: quindi ho scelto io la maggior parte delle strumentali. Non sono però d’accordo nel definirle “americane”. Al contrario quelle sonorità vogliono essere molto “italiane”. Infatti ritengo che un background fondamentale della musica del nostro paese sia quello che viene dall’elettronica, dalla techno specialmente e ho fatto in modo che questo si riflettesse nel disco. Quindi diciamo che per prima cosa ho scelto i beat che ritenevo più validi, puntando comunque a quella varietà che dicevi, dopodiché ho comunque cercato di privilegiare quelli che rivendicavano le maggiori similitudini con quel background di cui parlavo prima. Aldilà delle tendenze del momento io ho sempre ascoltato molta musica elettronica e quindi volevo che questo disco suonasse un po’ anche in quel modo.
S.: Per te quindi è importante che un disco rifletta in qualche modo la realtà, anche musicale, da cui provengono i suoi autori?
M.: Assolutamente sì e questo discorso vale anche per i testi, dai contenuti al lessico: per farti un esempio, quante persone conosci che usano “uomo” come intercalare, a parte i ragazzini infottati col rap? Io personalmente nessuna per cui mi sembra assurdo che esista qualcuno che rappa usando un gergo che non userebbe mai in una piazza. E’ così che manchi davvero di credibilità e non con i pezzi d’attitudine o le crime fictions.
S.: Dogo Gang a parte, come giudichi le altre partecipazioni al disco?
M.: In linea di massima bene. Sono contento che ci siano tanti interpreti, oltretutto molti dei quali sono anche ottimi amici, perché ognuno porta la sua attitudine e il suo stile. E’ così che lo volevo. La concepivo come una mixtape street, in tutte le accezioni di questo ultimo termine e ogni ospite ci ha messo il suo modo di vivere questa dimensione. Arrogante, introspettiva, sociale o poetica che sia. Senza stare a sottolineare ancora il livello di Co’ Sang e Fuossera, trovo che Mehdy e Thug Team abbiano buttato giù delle strofe molto intense e reali. E’ un peccato che i ragazzini abituati alle rime chiuse con pulizia e le punchlines da Zelig non riescano ad apprezzarne lo spessore, ma chi ha la mente abbastanza aperta per capire penso che bene o male alla fine capisca.
S.: Parlare di ragazzini ci riporta a un discorso che facemmo in un’altra occasione riguardo alla immaturità di molte strutture esterne agli artisti veri e propri, tra cui la stampa del settore. Mi pare di ricordare che fosti abbastanza caustico in merito.
M.: Non si può non esserlo. La stampa del settore è, con poche eccezioni, pusillanime e immatura, totalmente inadatta ad assolvere il suo compito. C’è gente che sa a malapena come si scrive o che non ha la testa per ascoltare che lavora per giornaletti che poi finiscono addirittura in edicola, come Da Bomb o su situazioni ancora più tristi come MoodMagazine e altre fanzines. Onestamente se non ci finisco sopra non mi cambia la vita, anzi. Non possono darmi nessuna visibilità superiore a quella che già ho. Poi ci sono alcune testate più grosse come Groove, che è il classico magazine a grande diffusione che ha nel suo target molta gente che sfoglia la rivista tanto per guardare le foto e leggersi giusto qualche articolo. Ma alla fine Groove e riviste simili esistono in tutti i paesi e per tutte le scene e svolgono anche discretamente bene il loro compito che è quello di informare su vasta scala. In fondo, nei loro confronti, non si può recriminare nemmeno troppo.
S.: La stampa diffondendo informazioni assolve anche ad una funzione diciamo di “promozione dei prodotti”, un compito che dovrebbe spettare alle etichette. La mia domanda è la seguente: visto che ultimamente si assiste a un risveglio dell’ interesse di grossi colossi rispetto all’ hip-hop italiano quale sarebbe, potendo scegliere, la strada che percorreresti tra autoproduzione, majors e piccole indipendenti?
M.: Per ora l’autoproduzione mi sembra la cosa migliore. Gestisci tutti gli aspetti del tuo prodotto, dalla grafica ai contenuti, con l’ovvia garanzia della totale libertà creativa. Le etichette indipendenti mi sembrano un po’ un ibrido inutile, finiscono coll’avere delle pretese senza ripagarti poi molto in termini di spinta, promozione e distribuzione del prodotto. Non fanno praticamente quasi nulla di più di quanto uno possa fare da solo. Io poi avevo già le mie idee per quanto riguardava il marketing di Roccia e credo che si siano dimostrate altrettanto valide, se non di più, di quelle che ti può mettere a disposizione una piccola etichetta. Ad oggi (eravamo a pochi giorni da Natale ndS.) Roccia ha già venduto quasi mille copie e questo dimostra che non ho torto: se un prodotto è valido gira comunque. Quindi il salto di qualità lo puoi fare solo con una etichetta più grossa, a patto però di avere alle spalle un background costruito su dei buoni dati di vendita che ti diano un vero potere contrattuale sui contenuti del disco. Questa strada, come dimostrano gruppi come i Subsonica, secondo me è percorribile. Considera poi che allo stato attuale del nostro mercato interno se vendi 10.000 copie di un disco sei già un “nome” della musica italiana e che gruppi che hanno fatto Sanremo non hanno raggiunto le 3.000 copie nei negozi e capisci perché la penso così. Una grossa etichetta è senz’altro l’unica vera svolta che ti può garantire quelle risorse e quelle idee che lanciano e promuovono veramente un prodotto su larga scala, le vie di mezzo sono solo scialbi compromessi.
S.: Avviandoci alla conclusione, come hanno avuto inizio i tuoi rapporti personali prima e artistici poi con i Club Dogo e come pensi che si evolveranno?
M.: Dunque, conobbi il Guercio e Jacopo (D’Amico, Dargen ndS) nel ‘98 ai tempi del Muretto, ricordo che gli lessi un mio testo e da lì io e il Guercio iniziammo a frequentarci un po’ condividendo la passione per il rap e per un certo cinema, quello di autori come Abel Ferrara per intenderci. Quell’incontro aldilà della forte amicizia e delle collaborazioni che si sono poi sviluppate, fu fondamentale anche per farmi uscire dall’ambiente del mio quartiere e per conoscere realtà sociali differenti da quella da cui provenivo. Mi aprì gli occhi su molte cose, ha ragione Edward Bunker quando dice che “certe cose devi prima vederle per poterle poi immaginare”! Molto semplicemente migliorò tanto la qualità della mia vita quanto quella delle mie aspirazioni. Oggi aldilà dell’amicizia, sono fiero che il mio nome giri a fianco al loro e non nascondo che il loro supporto mi sia stato di grande aiuto, anche se alla lunga poteva rivelarsi un’arma a doppio taglio specie se non fossi riuscito a distinguermi e ad acquisire una mia personalità indipendente all’interno della Gang, cosa che spero di implementare ancora di più in futuro pur continuando chiaramente a farne parte.
S.: Hai appena fatto cenno a una tua passione cinematografica, che altro c’è nel tuo immaginario?
M.: Musicalmente parlando c’è molto del rap americano di nuova generazione, piuttosto che quello della “golden age” di cui comunque a suo tempo sono stato anche io un fan. Essenzialmente il motivo è questo: trovo che oggi l’hip-hop abbia acquisito un che di “pop” un fatto che, a differenza del solito luogo comune secondo cui si sarebbe impoverito, a mio parere gli ha dato maggiore maturità. Oggi si scrivono canzoni vere e proprie, c’è più cura e ricerca nelle sonorità e soprattutto si privilegia l’interpretazione alla complessità metrica, una cosa che apprezzo molto e che l’ha reso molto più comunicativo e in grado di essere un veicolo universale. E’ sempre un bene che ci sia chi introduce tematiche nuove in un genere, come ha fatto Eminem all’inizio del suo successo, il suo personaggio con tutte le sue complesse schizofrenie, la foga interpretativa e l’introspezione psicologica ha dato una dimensione drammatica che prima il rap non aveva, di certo non su scala mondiale
S.: E aldilà della musica?
M.: Amo molto la letteratura, Dostojevskyi è forse il mio autore preferito, e con lui metto anche i grandi del noir e del pulp americano un po’ come nel cinema. In generale, come dicevo in un’altra risposta, ho un rapporto molto personale con i miei interessi e tendo a rapportarli ai miei punti di vista, come se fossero pezzi del mosaico di ciò che penso e di quelle che sono le mie considerazioni di carattere più generale sul mondo e spesso dal confronto con un autore o con un film le mie convinzioni in merito ne escono rafforzate.
S.: L’ultima domanda è quella di rito e riguarda i progetti futuri, tuoi e magari anche dei Club Dogo.
M.: Sto cominciando a lavorare sul mio disco,ma ci lavoro con calma ed ho appena iniziato a pensarci.I nostri sforzi sono ora concentrati sull’uscita del nuovo disco di “Club Dogo” dove compaio in due tracce e che posso assicurarvi setterà un nuovo standard,sia dal punto di vista strumentale (DonJoe ha appena portato a casa un secondo posto ad un contest ufficiale a NY,con giudici eccellenti come Rockwilder e Needlz e ha firmato un contratto con MTV Usa ndr) sia lirico…con questo lavoro puntiamo all’Europa!
Il disco si chiama “Penna Capitale”e pur mantenendosi indipendente confidiamo in un successo di critica e di consolidare il “culto” attorno alla nostra roba tra un pubblico sempre più eterogeneo, di cui siamo veramente orgogliosi.