A me piace la musica, sono innamorato follemente dell’hip hop perchè è la forma principale con cui io ho conosciuto ed imparato ad amare la musica, io adesso ho il negozio e conosco il funk ed il jazz ma l’ho conosciuto tramite l’hip hop, 15 anni fa ascoltando i dischi dei Gangstarr dicevo “cazzo Premier ha preso sto sample dai Crusaders, bom, vai a cercarti il disco dei Crusaders”. Penso che così come me anche Deda ed moltissimi altri abbiamo imparato ad amare il funk tramite l’hip hop e se qualcuno mi dovesse chiedere cos’è per me l’hip hop io gli risponderei è l’amore per la musica.
L’occasione è data dall’uscita di “Jet Five” e dall’imminente “Wastasi Showcase”, incontro Gopher nel suo negozio qualche giorno prima del secondo turno del 2 the Beat, che poi lo vedrà portato in trionfo assieme a Deda con un set infuocato. Mi accomodo su una sedia di legno e mentre io accendo il registratore Gopher mette in play un disco dei D.I.T.C…
Ugoka: La maggior parte della gente ti conosce per “La Parola Chiave” ma il tuo percorso artistico inizia molto prima, probabilmente sei uno dei pionieri del rap italiano ma il tuo esser stato sempre un po’ in disparte ha fatto si che non tutti conoscano la tua storia. Parlaci un po’ della tua esperienza con l’Isola Posse All Stars.
Gopher: All’epoca noi eravamo concentrati su una ricerca del rap in italiano e quindi potrei affermare senza presunzione di essere uno dei pionieri del rap in italiano, nel senso che quando siamo usciti con “Stop al Panico” c’eravamo noi gli Onda Rossa Posse e pochissimi altri. I Radical Stuff esistevano già da un paio d’anni ma facevano robe in inglese. Il mio esser stato un po’ in disparte è imputabile al fatto che io a differenza degli altri non ho mai settorizzato la cosa solo verso il rap, già nel lato b di “Stop al Panico” io faccio una parte ragga cosi come ne “La Parola Chiave” e questo è forse il motivo per cui molti bboys magari non sanno neanche chi cazzo sono io.
U.: Infatti c’è sempre stata l’idea di Gopher “dal reggae prestato all’hip hop” o viceversa…
G.: A me dispiace molto questa cosa perchè per me il reggae inteso come esperienza professionale, il fare dischi e il fare le tournee è stata solo una piccola parentesi della mia vita, mentre suonavo con il Sud Sound System ho sempre continuato a scrivere le mie strofe e ho anche suonato parecchie volte il funk per i breakers. E’ una cosa di cui più di tanto non mi risento perchè so che la gente non è abituata a vedere le persone nella loro globalità ma io mi sento veramente uno della Soul Boy scuola, Soulee B mi ha insegnato che tu prendi il microfono in mano e che sia reggae, soul o qualsiasi altra cosa tu canti, tu fai il rap. Anche nei dischi del Sud Sound System ho fatto varie strofe rap oltre ad aver suonato la batteria e per questo mi dispiace esser considerato quello del reggae che va a fare hip hop.
U.: Come hai conosciuto l’hip hop?
G.: Avevo 13 anni e scendevo di casa per andar a vedere i breakers di Lecce sfidarsi con quelli di Brindisi, ai tempi ascoltavo Clash e Police ma il mio primo impatto con l’hip hop è stato quello. Poi “It takes a nation of millions to hold us back” dei Public Enemy è stato folgorante, ai tempi sia io che Deda, cosi come Neffa nei Negazione, suonavamo in gruppi hardcore e proprio da li c’è venuta l’idea di provare a proporre qualcosa di hardcore in ambito hip hop. Fai conto che comunque all’epoca il pubblico interessato al rap era formato quasi esclusivamente da punk o ex-punk.
U.: Quindi il fare rap per voi è iniziato così?
G.: Si, facevamo cose in italiano magari un po’ cazzeggiando e scimmiottando gli americani così come si faceva nel salento con il reggae, tutti i vari “alliguai”, “camina”, “sienti moi” sono nati cercando di creare uno slang italico sullo slang straniero. Anche noi abbiamo iniziato in inglese poi abbiamo deciso di farlo nella nostra lingua perchè lo trovavamo più stimolante.
U.: Tornando al discorso Isola Posse All Stars?
G.: “Stop al Panico” è stato registrato nel 90 ed è uscito nel febbraio del 91, poi c’è “Passaparola” che è del 92 ma si allontana parecchio da quelle che era lo stile delle posse. Io credo che non sfiguri neanche adesso nelle selezioni di rap italiano perchè all’epoca era abbastanza avanti e si sente una notevole ricerca metrica dietro, ai tempi oltre ad ascoltare Public Enemy, NWA ed EPMD eravamo intrippati con tutta la Native Tongues e questo ci ha notevolmente influenzato, ammetto addirittura di aver quasi rubato delle robe ai Black Sheep. Isola Posse è durata fino al 93 e poi abbiam cambiato nome in Sangue Misto, io ero nella prima formazione dei Sangue Misto con Papa Ricky, Deda e Dj Fabri, Neffa ai tempi era in giro con Piombo a Tempo e Gruff nemmeno mi ricordo dov’era. Abbiamo suonato insieme per cinque mesi facendo una trentina di concerti dopo di che io son tornato nel Salento e Don Rico mi ha proposto di suonare nel Sud Sound System.
U.: Quindi tu quando hai partecipato a “La Parola Chiave” eri già à Lecce?
G.: Si era il primo anno che ero giù a Lecce e sono tornato a Bologna appunto per registrare “La Parola Chiave”. Qualche mese dopo sono entrato nel Sud Sound System e ho suonato con loro per circa quattro anni, quando poi sono uscito per dedicarmi completamente al rap.
U.: Come sono nati “Lu Servu de Dio” e “L’Anello Mancante” con Kaos?
G.: Appena uscito dal Sud Sound System, nel ‘98, mi sono chiuso in casa a scriver strofe perchè era quello che alla fine mi interessava fare. Io sono molto legato alle robe che ho fatto con Kaos e anche a queste ultime autoproduzioni ma chiaramente essendo “Lu Servu de Dio” il mio disco solista è quello che più mi rappresenta e che più rappresenta la mia visione del fare l’hip hop. NeoEx invece è nato in amicizia, nel periodo subito dopo Melma & Merda io e Kaos avevamo iniziato a scherzare sul fare un disco insieme e tra una Ceres ed un Havana è nato “L’anello Mancante”, sapevamo che era una cosa sarebbe durata poco e il nome partiva proprio da questo, il neo che diventa immediatamente ed automaticamente ex. NeoEx è stata una meteora durata due anni ma che c’ha lasciato un bel ricordo dentro, colgo l’occasione per dire che per me è stato un onore fare un disco con Kaos perchè è una persona che ho sempre stimato moltissimo.
U.: “NeoEx, questo è il rap della terza età/NeoEx, la merda a bassa fedeltà”. Si può dire che dopo NeoEx hai fatto di questo ritornello una sorta di modus operandi?
G.: Si, dopo NeoEx, con un piede fuori dal rap perchè indeciso se continuare o no, mi sono messo a fare questa roba strumentale perchè avendo accumulato una gran quantità di dischi funk e jazz mi sono guardato intorno e ho provato a fare anch’io qualcosa in questo campo, non avendo mezzi tecnici pazzeschi mi son messo a fare le robe in casa e nel 2003 è uscito “Hairyshima”. Poi ci sono due vinili, uno rap piuttosto sconosciuto con dj Inesha, “Liquidi Spigoli”, e il 7” con Marina in cui io faccio il rap e lei le parti ragga in dialetto.
U.: Come mai hai deciso di proseguire il discorso intrapreso con “Hairyshima” con il nome Unto Ke?
G.: Unto Ke è il nome che d’ora in poi continuerò ad usare per fare le mie cose strumentali, giusto per non inflazionare il nome Gopher. Già “Hairyshima” doveva uscire con un altro nome ma ero abbastanza confuso quando l’ho fatto e alla fine ho deciso di firmarlo col nome Gopher. Spero di fare un altro album l’anno prossimo con un progetto più ambizioso in testa, vorrei limitarmi a costruire l’impianto ritimico basso-batteria con al massimo qualche samples per poi farci svarionare sopra una decina di jazzisti.
U.: Come hai lavorato nella produzione di “Jet Five”?
G.: Ho mescolato il classico modo di produrre hip hop, trovare i campioni, tagliare i beats, sezionare le batterie, ad un atteggiamento un po’ live. Dopo aver costruito il loop principale mi mettevo al giradischi e facevo partire degli assoli mettendoli a tempo, per esempio nel disco c’è un assolo di Miles Davis reso quasi irriconoscibile perchè con il pitch variato cambia timbro. Mi sono divertito molto a fare questo viaggio, prendere un minuto di assolo dalle acappelle jazz per poi tagliarlo e scomporlo, non è il massimo dell’originalità me ne rendo conto ma è il mio modo di vedere il jazz, o fai così oppure sei un mago come Deda che si spezza centinaia e centinaia di campioni e ti fai quel tipo d’impasto che sa fare solo lui.
U.: Col fatto che tu e Deda giriate molto insieme non vi è mai venuto in mente di fare un disco insieme?
G.: Guarda sta cosa esiste da quando ci conosciamo e prima doveva addirittura essere un disco di rap, tieni conto che il nostro duo ancora prima di Isola Posse si chiamava Three Pack Bonanza, facevamo roba un po’ alla Beastie Boys influenzati chiaramente da tutto il punk che avevamo ascoltato. Sta idea è andata avanti per tantissimo tempo, anche quando io ero a Lecce, ma a questo punto non credo la faremo più (risate). Non lo so, ora che siamo più maturi musicalmente sarebbe il caso di fare qualcosa di più serio e mirato però ora io col negozio ho una serie di impedimenti pratici e magari non lo faremo mai o chissà quando…
U.: Però c’è sempre questo dj set che state portando in giro ormai da parecchio…
G.: Il dj set è Katzuma.org più Wastasi, nome che utilizzo per pubblicizzare il negozio. Il nostro dj set varia di situazione in situazione, quando siamo liberi di svarionare Deda va molto di più verso l’electro e la disco, io sfocio di più verso il soul anni 60, mi piace molto mettere anche roba latina, seguiamo il party insomma, mettiamo la musica adatta alla situazione, facciamo i dj. Secondo me i dj’s che si mettono la roba che piace solo a loro fanno cacare, che se l’ascoltino in casa, tu devi far ballare la gente, capire il mood della situazione e seguirlo, noi alla fine facciamo questo.
U.: Sempre per promuvere il tuo negozio so che stai preparando una compilation, “Wastasi Showcase”, cosa puoi anticiparci in proposito? Chi partecipa allo showcase?
G.: A parte le sorprese che non posso dire, perchè ci sarà una sorpresa davvero con la “S” maiuscola, ci saranno Deda con un pezzo nuovo di Katzuma, io con dei pezzi vecchi e nuovi in collaborazione con Mastino e con Fiume, ci saranno Mista, Frank Siciliano e Shocca, Unto Ke, c’è Shablo che fa uno skit, Moddi con un freestyle, poi si saprà tutto fra un mesetto dato che uscirà a fine maggio. Autoprodotto come al solito cosi ci mettiamo nei guai ma è molto più bello.
U.: Tornando a “Jet Five”, nell’interno copertina tu fai un elenco di artisti che ti hanno ispirato, quali sono quelli a cui devi di più?
G.: Gli artisti che ho citato sono quelli a cui ho preso i samples per fare il disco, la lista è lunghissima e quindi isolare qualcuno è veramente difficile: Roy Ayers assolutamente, perchè il suono di Roy Ayers è incredibilmente bello e lo sappiamo tutti, Jb’s perchè nel disco ci sono parecchi rullanti presi dai loro pezzi, Thelonius monk perchè è stato uno dei primi artisti jazz che ho seguito e che reputo un genio, tra l’altro la coda strumentale di “Passaparola” è tratta da un suo pezzo e ritengo il suo stile pianistico troppo avanti, non lo considero neanche jazz, è qualcosa di un altro pianeta come Sun Ra. Tra l’altro tra i progetti folli che ho in testa c’è anche quello di fare una compila con basi composte solo ed esclusivamente da samples di Sun Ra e appena mi stacco dal “Wastasi Showcase” voglio concentrami su sta cosa.
U.: Sempre restando nei territori inerenti al soul e al funk ti voglio fare una domanda che rischia di scadere nel pettegolezzo ma la reputo molto interessante. Cosa ne pensi di Neffa?
G.: Ehhh, bella domanda. Di Neffa personalmente penso tutto il bene possibile, siamo amici in senso stretto perchè ci conosciamo da una vita per cui sarò anche poco obbiettivo verso di lui, ho sempre continuato a sentirlo, anche quando era a SanRemo. Il problema musicale della faccenda di Neffa, togliendo l’amicizia, è che comunque lui ha dimostrato di essere un uomo di musica, chi lo conosce un minimo bene sa che lui è una persona molto legata alla musica, che conosce la musica e che ha avuto da sempre uno spettro molto ampio, dal punk coi Negazione a cose melodiche come “Aspettando il Sole”, per cui il suo cambiamento non mi ha shockato a dir la verità…
U.: Però molti hanno visto il cambiamento di stile di Neffa come una sorta di tradimento dopo “Chicopisco”, che a livello lessicale è l’apice raggiunto dai rappers italiani…
G.: Secondo me è un comportamento un po’ infantile e figlio di una visione non sempre globale della situazione, colpa una specie di visione da stadio della musica: tu fino adesso hai tifato per la Juve e ora non puoi tifare per l’Inter. L’hip hop non è il calcio, è fare musica e la gente può fare delle scelte che possono lasciare scontenti alcuni facendo contenti degli altri. Io da “Chicopisco” fino ad adesso posso anche dire che Nedda ha fatto delle robe che mi fanno cacare come delle cose che mi piacciono moltissimo. Tra l’altro gira con una band di musicisti fantastici e fosse tutta cosi la musica leggera italiana sarebbe meglio dello schifo che c’è ora. Posso comunque capire la gente che si è sentita tradita perchè nel suo periodo hip hop Neffa ha sempre portato avanti la bandiera dell’hip hip al cento per cento, della dopa come fatto vissuto, io ricordo dei freestyles di Neffa ancora insuperati in cui si faceva portavoce di questo.
U.: Prima hai citato “Aspettando il Sole” e volevo parlare appunto di quel periodo. Tu che hai vissuto tutta la storia del rap in Italia come ti spieghi che non ci sia mai stato oltre ai singoli casi un boom vero e proprio?
G.: Io non mi so dare un motivo, posso elencarti quali son state le cazzate che hanno fatto i rappresentanti della scena hip hop come posso dirti che in una nazione come l’italia è difficilissimo non fare queste cazzate, venire a compromessi è una cosa che tu devi fare se vuoi vendere e questo è ovvio perchè l’underground è una cosa il mercato un’altra. Il problema è che in Italia fai dei compromessi così sporchi che snaturano il tutto e fanno nascere i casini. Il periodo in cui Neffa, La Pina e i Sottotono erano in radio era il momento in cui poteva e doveva succedere un qualcosa che, a parte qualche caso isolato, non è successo. Secondo me è un problema proprio dell’Italia, la cultura italiana ha da sempre un atteggiamento usa e getta nei confronti delle culture altre e questo lo si nota anche nei riguardi dell’hip hop, basti pensare che ancora oggi, nel 2005, se vai ad un concerto rap che non sia una jam vedi la gente estranea fare anche i gesti con le corna o dire “Yo! Yo!.
U.: Quindi secondo te è un problema della cultura italiana inteso come modo di vedere la musica?
G.: Si, e la migliore risposta a tutto questo è stato Melma & Merda, l’hardcore vero e proprio a ribadire che a prescindere dai vari dischi d’oro o da quello che può passare in radio l’hip hop è questo. La cazzata che ho fatto io personalmente, ma anche altra gente, è stata quella di non aver preso mai seri contatti con l’estero e quindi ci ritroviamo sempre con le solite storie: esce il disco, suoni nei soliti posti, saluti la solita gente ma è sempre tutto molto sterile, penso sia proprio per questo che alcuni personaggi di cui sapete i nomi hanno smesso di fare rap, perchè si son cagati il cazzo di queste situazioni e perchè non si riesce più a trovare il senso, mandi avanti una cultura ma ci sono anche altri modi per farlo. Ormai il lagnarsi della situazione hip hop in Italia è quasi diventato un luogo comune. L’hip hop in Italia è questo e questo resterà, punto.
U.: Tu non vedi neanche una possibile evoluzione qualitativa?
G.: C’è già un po’ a dir la verità…
U.: Qualche nome?
G.: Beh… i Club Dogo sono dei bravi rappers, mi piacciono molto anche dal vivo, ho sentito il featuring che hanno fatto sul disco di Inoki e in quel pezzo il rap di Gue Pequeno è veramente spesso, è una delle strofe più belle che ho sentito ultimamente. Le stesse robe che fa Fabri Fibra a me piacciono molto e lui quando scrive è davvero geniale. Anche l’ultimo disco di Mista mi è piaciuto abbastanza e comunque a parte i nomi si sente che c’è gente un po’ più capace di prima. Sarà che sono un po’ pessimista però io non credo che in Italia ci sarà mai una svolta di un certo tipo, perchè finchè non cambiano le fondamenta culturali di questo paese, vedi il fatto che siamo l’unica nazione in Europa dove non ci siano degli incentivi seri verso i ragazzi che si avvicinano alla musica, non cambierà un cazzo.
U.: Tutte le altre discipline dell’hip hop si stanno comunque evolvendo, anche in Italia. Tu ti interessi delle ultime evoluzioni per esempio del turntablism?
G.: Da appassionato di jazz sono molto interessato a questo, lo reputo il jazz del futuro, ho anche avuto una specie di leggittimazione pratica guardando un’intervista in cui Dizzie Gillespie disse “non capisco perchè i jazzisti continuino ad avere un atteggiamento ostile verso i dj’s quando alla fine questi ragazzi fanno jazz.” Gente come i Gunkhole o Ricci Rucker, ma anche Rob Swift prima, hanno portato il turntablism a livelli assurdi e infatti nel prossimo disco di Unto Ke mi piacerebbe chiamare Inesha a fargli fare delle session con dei jazzisti. Secondo me poi non si è ancora usato lo scratch in ambito jazz, ci si è limitati ad introdurre elementi jazz nell’ambito del turntablism, io non ho mai visto ancora un quartetto batteria, piano, contrabbasso con il turntable al posto del sax tenore, magari sta cosa l’han già fatta a New York e siamo noi a non averla vista ma è comunque quello che mi interessa fare in futuro.
U.: Di Writing e breaking?
G.: Writing poco a dir la verità. Seguo di più la faccenda del breaking perchè ci sono affezionato e perchè essendo un dj di funk suono anche per i breakers.
U.: I tuoi pezzi preferiti da suonare per i bboys?
G.: “Blow your Whistle” dei Soul Searchers, quelli dell’Incredible Bongo Band e anche “Pass the Peas” dei Jb’s che nonostante sia un pezzo lento lo trovo molto appropriato perchè è bello vedere il breaker che non si limita a fare power moves ma che va a tempo e si amalgama con il funk.
U.: Conclusioni e saluti.
G.: Nelle interviste io lascio sempre questo messaggio: Umiltà, e purtroppo vedo troppa poca gente che si avvicina all’hip hop con umiltà. Altro messaggio: comprate tanta musica, scaricate quello che volete ma comprate anche tanta musica, non lo dico solo perchè io vendo dischi ma perchè sennò si finisce per accumulare le cose e non dare il giusto valore alla musica, perchè un ogni disco è un valore aggiunto alla tua esperienza culturale. Saluto la fidanzata innanzi tutto, la mia famiglia che ora è in sicilia al mare mentre io sono qua chiuso in negozio, Katzuma.org, Phase 2, Trix, Kaos e tutti gli amici.